Quella di “materiali polimerici” è l’esatta definizione da attribuire a ciò che, riferendoci alla sua caratteristica principale, chiamiamo confidenzialmente “plastica” . La plasticità, che deriva dalle proprietà di duttilità e tenacità, conferisce un’estrema variabilità di utilizzo a materiali i cui elementi di base sono sostanzialmente due: carbonio (C) e d idrogeno (H). La loro origine risale a da composti organici naturali come la cellulosa, il carbone,e, ovviamente, quella miscela liquida di idrocarburi nota a tutti come “petrolio”.
Riferendoci ai polimerici dobbiamo pensare a materiali artificiali formati da polimeri, ossia catene di singole molecole organiche (C+H), dette monomeri, unite fra loro tramite una reazione chimica indotta in un processo chiamato polimerizzazione. La modalità di svolgimento di questo processo e la struttura delle catene componenti determinano la natura del materiale in uscita con le sue proprietà tecnologiche.
La classificazione più semplice da effettuare è riferita al comportamento in base al calore, che differisce i materiali polimerici in termoplastici (la plasticità aumenta con il calore) e termoindurenti (la plasticità diminuisce con il calore, quindi aumentano durezza e fragilità). Si aggiungono gli elastomeri, ossia le “gomme” artificiali che possono essere sia termo-p. che termo-i, ed hanno un comportamento tutto loro. In definitiva, il comportamento meccanico dei materiali polimerici risulta fortemente influenzato dalla temperatura. Di base, possiamo distinguere tre andamenti:
Ma quanti e quali sono i materiali polimerici? Tantissimi, ma distinguiamo “7 tipi di plastica” basandoci sui codici di riciclaggio, che troviamo indicati in tutti i prodotti a seconda del materiale:
Tutti i rifiuti che indicano questi codici vanno conferiti nella raccolta differenziata della “plastica”, salvo diverse indicazioni da parte del comune di appartenenza. Esistono, in ogni caso, resine le cui catene polimeriche non sono facilmente separabili, o per meglio dire è economicamente sconveniente, o ancora di più i consorzi nazionali di riferimento non dispongono della preparazione o delle autorizzazioni normative necessarie (è il caso delle custodie dei CD o delle posate di plastica): ecco perchè bisogna fare sempre attenzione al conferimento; tenendo comunque presente che i 7 simboli sono un perfetto via libera, magari assicurandosi di scrostare i residui di cibo e/o altro materiale da ciò che viene conferito. Occhio anche ai giocattoli, ed a tutti quei prodotti per lo più “di plastica” ma contenenti porzioni miste di vari materiali (vhs, musicassette), che non possono essere conferiti tal quale.
FOCUS: LE “MICROPLASTICHE”
Come visto, tranne alcuni polimeri particolarmente difficili da ridurre o “assemblati” in materiali compositi (come, ad esempio, la vetroresina delle carrozzerie automobilistiche), il riciclaggio aiuta molto ad evitare l’inquinamento da materie plastiche. Tuttavia, non basta.
Uno dei problemi ambientali dovuti all’enorme utilizzo di materiali polimerici da parte della società moderna deriva dai rifiuti collaterali al loro uso: le microplastiche. Si definiscono “microplastiche” rifiuti di materiale polimerico di dimensioni troppo piccole per provvederne un servizio di raccolta, dovute all’utilizzo tal quale (ad esempio, nel settore della cosmesi si ricorre(va) a particelle plastiche di piccole dimensioni) o dovute alla frammentazione di porzioni più grosse (ad esempio, i trucioli di pneumatico che saltano per l’attrito sull’asfalto sono frammenti di elastomeri).
Sono sì “piccole”, ma mantengono inalterate le proprietà di durabilità che le porta a permanere nell’ambiente per più secoli senza degradarsi, e il loro accumulo ha un forte impatto ambientale sugli ecosistemi marini, presso i quali tendono a giungere per effetto del dilavamento. Un esempio del loro effetto è il Pacific Trash Vortex: 1,600,000 kmq di isola di rifiuti raccolti dalle correnti oceaniche, per lo più relativi a materie plastiche, che galleggia in mezzo al Pacifico.
In particolare, le microplastiche sono a tutti gli effetti entrate nella catena alimentare. La fauna marina è spesso vittima dell’accumulo, all’interno degli stomaci, di grosse quantità di macro- e micro-plastiche. Noi stessi, nutrendoci di un vasta gamma di organismi ittici, ne ingeriamo una parte. Non solo, microplastiche affluiscono nel nostro organismo in piccolissime quantità anche se, ad esempio, ricorriamo all’utilizzo prolungato di una bottiglia in PET con tappo in PP. La coppia applicata al tappo nell’operazione di apertura e chiusura induce un attrito alle pareti interne del tappo che causa la frammentazione di parti infinitesime di materiale che, inevitabilmente, finiamo con l’ingerire.
Si tratta di un effetto molto contenuto, ma ci dà la misura del problema di un mondo fatto di plastica. Non potendo fare a meno delle sue proprietà di utilizzo, è necessario incentivarne un utilizzo ragionevole. Nel mondo degli imballaggi, ad esempio, si deve pensare a involucri ridotti o composti da materiali sostenibili, come, ad esempio, le bioplastiche.
Queste ultime sono materiali costituiti da polimeri naturali e che hanno la proprietà di risultare biodegradabili, ossia degradabili per effetto di processi biologici che si innescano con l’esposizione atmosferica i quali consentono lo smaltimento delle microplastiche collaterali in tempi non secolari. Ancor di più, la tecnologia ha consentito di sviluppare bioplastiche compostabili, cioè conferibili, come tali, nel residuo organico.
Sempre valida è la prevenzione da parte di ciascuno di noi: il consumatore comune può, autonomamente, privilegiare forme di prodotto in confezioni biodegradabili e/o compostabili, oppure acquistare prodotti sotto forma di ricarica. Le direttive legislative devono occuparsi del resto, disciplinando l’azione dei produttori tenendo conto del lungo termine nella corretta interazione fra i termini micro- e macro-economici.